Benvenuti nei miei racconti...

Viaggerete attraverso le righe del mio sito,tra le stanze della mia anima.

Incontrerete racconti lontani che portani i profumi ed i colori della mia amata Calabria.

Viaggerete con me, e vedrete paesaggi e misteriose apparizioni.
Vi sospingerete in un limite indefinito  nelle emozioni e nei miei battiti,tra fantasia e realtà, dove il vero si mescola con il sogno e la vita diventa "Un Abbraccio di Terra, Mare e Cielo"

Divisori by Follettarosa

Una musica senza tempo (1° Parte)


Era una notte d’ autunno. Abbandonai sul cuscino l’attesa inutile di un sonno che tardava ad arrivare e scesi in strada, in una  rue La Bruyère deserta. L’oscurità assumeva i contorni di sempre più malcelata tristezza. I miei passi ruppero il silenzio della notte e alcuni gatti che frugavano nell’immondizia fuggirono al mio passaggio, mentre io frugavo nella notte come una ladra. In un attimo lo scenario cambiò all’ombra dell’insegna di un bar, e il suono familiare di un’armonica a bocca  mi gelò il sangue. Con il cuore tremante mi avvicinai  all’uomo che suonava seduto su una panchina per guardarlo da vicino. I suoi capelli lunghi e candidi come la neve coprivano per metà il volto e i suoi occhi guardavano in avanti senza espressione. Quanto tempo era passato da allora! Più di quarant’anni! Tanti, ma non abbastanza per non saper riconoscere quell’uomo e il suono di quell’armonica così meravigliosamente viva dentro di me.

Eravamo nel giugno del “47 ed avevo sedici anni. Vivevo in un piccolo paesino della Calabria. I miei erano proprietari di una fattoria, ed era il periodo della mietitura del grano; un lavoro molto duro svolto sotto il sole cocente. Per fortuna mio padre poteva  avvalersi dell’aiuto di alcuni braccianti, sia uomini che donne che vennero ad aiutarci. Si lavorava sodo per tutto il giorno, la sera poi, quando era buio non si poteva più lavorare, si metteva da parte la stanchezza e si prendeva l’organetto. In quelle sere era tutto uno svolazzare di sottane e fazzoletti che si agitavano al ritmo di raspa, tarantella, polka e “quadriglia cumannata”. Quell’allegra brigata s'intratteneva finché riusciva a stare sveglia, quelle poche ore di frenesia bastavano a rinfrancare i cuori amareggiati dei braccianti, poi qualche ora di riposo e prima del levar del sole tutti nuovamente a lavoro. Fu in una sera al tramontare del sole, durante una delle mie fughe di noia, che ho conosciuto  Bosco. Sgranchivo i miei pensieri in un campo di girasoli, quando sentii il suono di un filo d’erba suonato con sapienza; elevava al cielo l’immensità di un animo umano e, altri mille fili d’erba  andavano replicandosi sotto le note del vento come se  fossero il coro della voce degli angeli.

Rimasi nascosta fra i cespugli a guardare quell’uomo dai capelli color del grano, e la sua bocca che si muoveva su quel filo d’erba sembrava rubare i colori alle ciliegie. Mi chiesi se tutto ciò che vedevo, se quel mio sentirmi rapire l’anima fosse frutto di un miraggio dovuto al troppo sole. Non so per quanto tempo rimasi ad ascoltare quel suono. Quel che so che ci ritornai il giorno dopo, e quello dopo ancora. Venni a sapere da alcune braccianti che il ragazzo che suonava il filo d’erba era straniero, faceva  parte anche lui dei braccianti assunti da mio padre nel periodo stagionale. Quello che scoprii non fece che aumentare ancora di più il mio interesse per quell’uomo sconosciuto dai capelli d’oro, che suonava un filo d’erba come se fosse un’armonica. Quando mi recai il giorno dopo al campo dei girasoli non udii nessun suono e sotto la quercia adiacente al campo non lo vidi. Stavo per andarmene, quando la sua voce alle mie spalle mi fece trasalire:
 “Szukam?” Rimasi in silenzio perché non capivo, e accennai solo un timido 
sorriso. Scoppiò in una risata e ripeté la frase in italiano: “Cercavi me?”. Incontrai i suoi occhi, di una bellezza disarmante che non conosceva fine. I suoi occhi non parlarono soltanto al mio cuore, ma presero a corteggiarmi l’anima. I suoi occhi ed i miei, le sue parole e le mie, tutto era ormai un tutt’uno, un solo sguardo, un unico viaggiare, un unico sentire. La grande quercia divenne per noi un angolo di paradiso e il filo d’erba che lui continuava  a suonare  faceva da colonna sonora a quell’amore appena nato.
Il giorno che riuscii ad andare con mia madre al mercato, gli comprai un’armonica a bocca che poi avvolsi in dei tralci d’edera come simbolo di un qualcosa che nasce e non muore mai. Quando la vide gli brillarono gli occhi e iniziò a suonare Lili Marleene. Le note iniziarono a impreziosire il nostro cielo, la musica lasciò il posto alla passione. Baciarci ci fu vita, toccarci ci fu tutto. Restammo abbracciati nudi  sotto un cielo azzurro, fra alberi e silenzi e i nostri cuori battevano un’indefinibile melodia nota solo  a noi.

Prendemmo a vederci tutti i giorni dopo il tramonto; e una sera, da un discorso che mi fece, capii che  non si sarebbe fermato in quel piccolo paese sperduto. Cercai con tutte le forze di soffocare il pianto, le lacrime affollarono i miei occhi inondandoli di tristezza. Quelle gocce solcarono lentamente il mio viso, piccole carezze calde e liberatorie, a consolare quel tempo che per noi sembrava sospeso. Chinai il capo sulle sue ginocchia e  mi abbandonai al dolore. I suoi capelli, moltitudine di fili d’oro, celavano i suoi tratti,  sottraendoli ai miei occhi, cercai un appiglio nelle sue mani. Le strinsi, le strinsi con la forza dell’amore, e lui le baciò con la tenerezza di un amante. Tali eravamo. Clandestini di sentimenti, consapevoli di una passione vissuta ai margini della morale, incontri dove l’abbandono ci rendeva perduti e felici ma sapevamo che il distacco, quando sarebbe giunto, avrebbe devastato il nostri cuori con la stessa violenza di come c’eravamo amati. Bosco era libero e visionario, la sua vocazione al delirio, alla bellezza, all’unicità, alle diversità, il suo amore per la musica, lo avrebbe portato a spingersi lontano a ricercare l’essenza d’ogni cosa.

Quando la mietitura finì, e anche la vendemmia,  mi chiese di lasciare tutto per partire con lui ma, in me prevalse la razionalità e la ragione fu al di sopra del cuore.

“Non sarai per me un rimpianto, né un rimorso; ma straordinaria memoria di 
libertà, un fiore segreto che vivrà per sempre nel mio cuore” mi disse.
E quando  mi voltò le spalle e andò via, sapevo che non ci sarebbe stato più ritorno, sapevo che non si  sarebbe mai fermato, che avrebbe portato altrove il suo amore, con perdente dignità ma senza mai voltarsi a guardare indietro. E io non feci niente per trattenere quel sogno d’amore che lui aveva reso possibile. Non lo fermai, anche se, dentro di me sentivo germogliare un piccolo seme che poteva fare da gabbia per farlo restare.

Per obliare alla vergogna del mio disonore, mio padre mi diede in sposa ad un ricco fattore più vecchio di me di vent’anni, che accettò quel peccato che portavo in grembo senza battere ciglia. Ed io, sottomessa a quella legge patriarcale che non ammetteva repliche, non potei fare altro che ubbidire. Passai degli anni difficili accanto a un uomo che palesemente non manifestava amore, né modi gentili nei miei confronti; ed io ricambiavo con silenzi e indifferenze. La mia fonte d’energia era il bambino, nei suoi occhi rivedevo Bosco, e il suo sorriso spazzava via la tristezza riempiendo di calore la mia vita. Fin dai primi anni, mio figlio dimostrò un vero interesse per la musica e quando gli regalai un piccolo flauto non ebbi dubbi sul suo talento.

Questo suscitò l’ira dell’uomo che avevo sposato e un giorno, dopo l’ennesima discussione, prese il flauto e lo spaccò in testa al bambino. In quel momento, fra le urla e il pianto disperato di Nedel, mio figlio, sentii risuonarmi dentro la mente alcune teorie filosofiche di Bosco. "E’ nei momenti bui che bisogna ricordare, capire, sentire che la vita ci appartiene veramente e che siamo solo noi a poter invertire trionfalmente il disvalore in valore. Il sole torna sempre, non si sa come né perché, ma improvvisamente c’è luce dentro e fuori, i colori tornano luminosi, nell’anima e nel cuore scoppia un’intensità, una pienezza, una completezza che prima sembravano irraggiungibili. L’unico potere d’intervenire nei fatti della vita è quella della reazione, del non lasciarsi andare. Sono istanti, intervalli fra un sogno e un dolore dove il tempo racconta quanta breve e intensa sia la vita e quanto possa davvero regalare un senso se si vuole. Non inchinarti mai davanti all’ignoranza, non inchinarti al potere del tempo rinunciando alla grazia del cuore, e non lasciare mai che carezze inaridite dal disamore scendano sui tuoi seni o fra le gambe aperte all’abitudine. Non recidere mai ciò che ti fiorisce dentro, spargendone i petali nella stagione dei ricordi, negandoti al presente. E’ assurda la negazione di sé alla vita. È inumano non avere più sogni.”

Prima di conoscere Bosco, ignoravo l’estensione del mondo; in quel piccolo spazio dove confinava la mia vita non vi era mai stato posto per i sogni, né per il coraggio di poterli vivere. Dovevo liberarmi del destino che m’imponeva l’ambiente d’origine; lo dovevo a me stessa, a mio figlio e a Bosco. Decisi di andarmene.

Partii di mattina presto, quando tutti erano nei campi a lavorare. Raccolsi i miei pochi stracci in un vecchio scialle di lana, alzai gli occhi al cielo, chiedendo perdono a Dio; e poi con il bambino e con solo mille e trecento lire in tasca, me ne andai. Dovevo raggiungere Napoli e il conservatorio di San Pietro a Maiella. Nei giorni precedenti alla partenza avevo già preso accordi per fare entrare Nedel in convitto. Convitto, che gli avrebbe consentito di vivere e studiare.

Prendemmo una littorina dalla piccola stazione di Cosenza, che ci avrebbe portato fino a Paola e da lì un treno per Napoli. Il fischio del treno che si apprestava a giungere sul binario della piccola stazione iniziava a cancellare in me la paura. Mi sentivo invadere da un piacevole senso di serenità; e quando salimmo sul treno e prendemmo posto, capii che ero distante dalle ansie, dai dubbi. Distante, senza più strade, né volti, né rabbia.

Eravamo nei primi di Maggio e, da dietro il finestrino del treno, il sole accendeva i colori dei prati, disegnando geometrie di verdi e gialli nei campi coltivati. Man mano che il treno avanzava riuscivamo a scorgere brevi frammenti di mare, e quando ci apparve davanti come una enorme distesa d’acqua senza confini, l’emozione fu incontenibile. Era la prima volta che lo vedevamo e Nedel ne era felicissimo. Vedevo la bellezza del mare fiorire negli occhi di mio figlio.

“A volte è così bello trattenere il respiro per un’emozione che hai dentro, che socchiudere gli occhi in quel momento è l’unico modo per proteggerla.” Mi aveva detto un giorno Bosco. Chiusi gli occhi e respirai a fondo, seppur un grosso nodo mi stringeva alla gola. Una volta giunti, avrei pensato ad accompagnare Nedel al conservatorio, a trovarmi un lavoro e mettermi alla ricerca di Bosco. Avevo perso la carta migliore del mio tempo e rimpiangevo quel futuro che poteva esserci e non era stato. Ma, forse non tutto era irrimediabilmente perso.

 

 

 *2° Parte

 

Il cielo che di mattino era terso si riempì di nubi grosse e nere che  andavano addensandosi all’orizzonte. Un cielo plumbeo vestiva Napoli e  la pioggia 
precedette il nostro arrivo.

Una colomba malandata riposava stanca sull’orlo del vecchio orologio della stazione, mentre sguardi di gente sconosciuta ci sfioravano curiosi, io e Nedel  eravamo fermi ad aspettare sotto un portico  l’arrivo del bus che ci avrebbe condotto al conservatorio. La pioggia continuava a cadere obliqua sospinta del vento. Mi guardavo intorno con aria smarrita e curiosa quando notai una scritta su un muro che andava via, via scolorandosi sotto gli scrosci di pioggia: “Nessuno dovrebbe immolare il suo amore sull’altare di un addio”,  recitava quella scritta. In un flash della memoria rividi Bosco chino sulle mie labbra nel momento del nostro ultimo saluto. Ebbi un balzo al cuore ed ebbi un attimo di sbandamento. Quella frase apparteneva a Bosco! N' ero certa, me l’aveva sussurrata piano a fior di labbra prima di andare via. Mi guardai intorno cercando con lo sguardo qualcos’ altro che poteva portarmi alla certezza che Bosco era lì o che vi era stato.

Notai  un venditore di noccioline che sospingeva il suo carretto per metterlo al riparo dalla pioggia: “Scusi, Signore mi saprebbe dire se ha visto un uomo alto, biondo scrivere sul quel muro?”. 

Scosse la testa in senso di diniego e si strinse nelle spalle. "Passa tanta gente di qui! Chi può dirlo,forse si, forse no”. 

Rimasi impietrita sotto la pioggia a seguire con lo sguardo quel venditore che andava allontanandosi con il suo carretto brontolando sotto la pioggia. La vocina di Nedel  che mi chiamava dall’altre parte della strada mi fece tornare in me, anche se, quella frase diede inizio al mio tormento. 

Com’ era stato possibile a fronte di un sentimento che per bellezza e immensità gareggiava con luna finire disorientato nella paura, nel timore sotterraneo di non avere mai un futuro stabile, concreto. Ed ora il desiderio di tornare indietro, cancellare il tempo, riprendermi quel bacio sulla bocca  e  annegare nel mare dei suoi occhi. Può mai disorientare l’amore? Disorienta la paura, l’errore, il tempo sbagliato, la morale, gli abusi del linguaggio, la mente insidiata da una strada mai percorsa. No, l’amore è forza, coraggio. Chi ha paura dell’amore ha paura della vita e non avrà mai niente.

Avevo compreso troppo tardi il senso dell’amore; tutto si paga e tutto ho pagato e tutto pagherò, dissi a me stessa. Lo avrei amato del suo stesso amore,  lo avrei cercato, chiamato, atteso, non gli avrei più mentito, avrei condiviso la luna, le stelle e la pazzia ma anche la noia, la stanchezza e il desiderio, lottato contro il destino, l’ignoranza, la paura, avremmo sognato e sorriso, litigato e vinto. Per lui e con lui.
    Accompagnai mio figlio al conservatorio. A Nedel avevo spiegato ancora  prima di partire che il suo ingresso al conservatorio era necessario al fine di poter studiare e imparare  la musica che a lui piaceva tanto. Annesso al conservatorio operava un convitto che gli avrebbe consentito  di rimanere lì a dormire e a mangiare fino a quando non avrebbe concluso il suo ciclo di studi. Io sarei andata a trovarlo ogni domenica e avremmo trascorso la giornata insieme. Nonostante questo, il distacco tra noi fu molto doloroso, a stento trattenei le lacrime, mentre il bambino aggrappato al mio collo piangeva disperato implorandomi di non lasciarlo solo. 
Andai via con il cuore a pezzi e con le urla di Nedel impresse nelle orecchie.
    Ricordo che a passi lenti, completamente estranea alla gente, al traffico,  alle vetrine e a tutto quel che mi ruotava intorno, camminavo per quelle strade di Napoli assolutamente sconosciute, senza una meta. L’unica cosa che sentivo di fare era quella di camminare, andare avanti per non pensare alle lacrime di Nedel. Vagare per la città era un anestetico e sembrava lenire il mio dolore e il mio rimorso per averlo lasciato solo senza di me in quel luogo estraneo. Mi fermai davanti ad una vetrina dove erano esposti degli abiti femminili di gran fattura. Osservavo,  senza vedere persa com’ero nei miei pensieri. Ad un certo punto mi accorsi di un po’ di trambusto all’interno del negozio, un uomo di mezza età,  di media statura e un po’ grassoccio discuteva animatamente con alcune signore, una di loro parve notarmi e puntò un dito nella mia direzione.

Smisero di parlare e si girarono a guardarmi. A quel punto mi ritrassi dalla vetrina e feci per andarmene quando mi sentii chiamare da una delle signore : “Signorina, aspetti, non vada via!” Mi fermai perplessa chiedendo se si stava riferendo a me. Mi disse che  mi avevano notato fuori dalla vetrina e che proprio in quel momento la mannequin della sartoria era andata via lasciando il lavoro  di punto in bianco;erano disperati perché non sapevano come fare con le clienti che sarebbero arrivate da lì a poco a misurare degli abiti ed io sembravo capitare al momento giusto con il mio fisico alto e slanciato. In quel scenario improvviso e confuso non riuscivo neanche a capire cosa fosse una mannequin e che cosa avesse a che fare con me. Come un automa seguii la signora all’interno del negozio che in realtà era una delle più prestigiose sartorie di Napoli. L’uomo di mezza età che avevo visto dall’esterno prima di entrare, mi ruotava intorno osservandomi dalla testa ai piedi: “Merravigliosa, merravigliosa  criatura! Ve va bbuone si ve donghe 'e cinquciente lire 'o mese e rimanite 'a faticà cà?”.

 Fu così che mi ritrovai a fare la mannequin in quella sartoria senza neanche sapere in che cosa consisteva quel lavoro; le ragazze mi spiegarono che non dovevo fare altro che indossare e poi sfilare dei meravigliosi abiti. Mi resi conto  solo in quel momento di com' ero stato clemente il destino a condurmi  lì, in quel luogo e in quel preciso istante. Mi offrii di pulire la sartoria e in cambio chiesi se potevo rimanere anche a dormire ,perché non avevo un posto dove andare. Il sarto acconsentì e mi mise a disposizione un piccolo stanzino nel retrobottega.

    Mi adattai con molta facilità a quel tipo di  lavoro, anche se a volte rimanere ferma per ore mentre Renato, il sarto, mi modellava addosso le stoffe era estenuante. Renato era un sarto d'alta classe, un vero artista dell’ago e del filo  che vestiva su misura le signore e le signorine della Napoli bene. Se non fosse stato  per i continui indugi e palpeggiamenti sui miei seni e sui miei fianchi,  avrei potuto dire che Renato era un uomo dolce e gentile. Ma di questo vi parlerò più avanti.
    I giorni rotolavano via come sassi  di fiume portati via dalla corrente ,e in quel scorrere non vi erano segni della presenza di Bosco che potevano condurmi a lui.  Trovare Bosco era come cercare un ago in un pagliaio. Fu a Teresina, una delle apprendiste sarte, alla quale avevo confidato la mia storia, che venne l’idea di fare dei foglietti, una sorta di volantini con su scritto: ”Chi è Bosco Nedelcovic?”. Nei foglietti avevamo anche riportato il numero di telefono della sartoria. Chi lo aveva conosciuto o aveva sue notizie poteva chiamare a quel numero. Li distribuimmo per tutta la città, nei vari bar, nei mercati, davanti ai cinema, ai negozi,  ma non ci giunse mai nessuna notizia.

    S’avvicinava l’estate e il caldo e l’afa rendevano l’aria irrespirabile all’interno della sartoria. Quel pomeriggio dovevo indossare degli abiti di cerimonia per alcune clienti che venivano da fuori città. Erano le 15.00 e sentivo il bisogno  di andare a bere qualcosa di fresco al bar prima che la sartoria aprisse. Teresa mi accompagnò al bar che distava poche decine di metri dalla sartoria e prendemmo posto fuori sedute sotto una magnolia che faceva da ombra. Accarezzavo il bordo del bicchiere osservando due giovani ragazze che avevano preso posto accanto al nostro tavolino, le movenze, i gesti mi fecero capire che dovevano essere le nostre clienti venute da fuori. 

Erano così vicine che riuscivo a udire i loro discorsi. Una di loro stava raccontando, all’altra ragazza, con aria sognante, di una gita scolastica a Pompei, dove, allontanandosi dal gruppo dei compagni si era persa, era riuscita poi a raggiungerli grazie all’aiuto di un giovane  straniero, alto e con i capelli chiari che l’aveva accompagnata ad un bar per telefonare. La ragazza che era rimasta in silenzio ad ascoltarla le chiese il nome del giovane. Bosco, si chiama Bosco, rispose. Saltai dalla sedia facendo cadere anche il bicchiere che finì in mille pezzi sul pavimento. Le due ragazze ammutolirono e si girarono a guardarmi. Certe volte il sentimento è l’istinto della ragione, e così senza pensare a nulla mi avvicinai alla ragazza e senza mezzi termini le chiesi se il Bosco che aveva conosciuto fosse l’uomo che le mostrai in una foto, l’unica che possedevo, e che ritraeva Bosco insieme ad un gruppo di braccianti nel periodo della mietitura. La ragazza prese la foto e la guardò,  poi si portò una mano sulla bocca  come a voler nascondere lo stupore, un istante dopo abbassò lo sguardo per  non sostenere il mio. “Non è lui, ” rispose, e  risollevando il capo mi porse la foto con evidente  imbarazzo. Un sottile struggimento m' invase. Non poteva non essere lui!  La ragazza mi aveva mentito. N' ero certa, anche se,non riuscivo ad afferrarne il motivo. Respirai a fondo e avanzai lentamente in direzione della sartoria; una rigogliosa speranza cresceva nei miei pensieri.
   Due giorni dopo quell’incontro partii per Pompei alla ricerca di Bosco. 
Camminare  per quelle stradine silenziose e antiche consegnavano alla mia anima un piacere che sapeva di pace . Avvertivo quel silenzio come un qualcosa di sacro, sentivo che ogni dettaglio aveva voce, ogni pietra era così vissuta che sembrava raccontare gli eventi di un tempo mai perduto. Andavo avanti con la curiosità di scoprire cosa c’era dietro ogni angolo coltivando la speranza che dietro ogni angolo che mi apprestavo a svoltare ci fosse Bosco. Vagai tra le rovine e mostrai la foto a più persone, ma nessuno parve riconoscerlo . Risalii per quelle stradine avviandomi verso Piazza dell’Immacolata, mostrando ad ogni persona che incontravo la foto.
Giunsi davanti al Santuario della Beata Vergine del Santo Rosario. Sul sagrato della chiesa stava  seduta per terra una donna con lo sguardo vitreo, fisso in  avanti, di fianco a lei in una grossa gabbia era rinchiuso un gatto. Le passai davanti silenziosamente ed entrai in chiesa a pregare, quando uscii fuori, la mendicante mi tese la mano e le diedi dieci lire.

–       Se cerchi lo straniero, non è qui. Torna domani.

–       Conosce Bosco? La prego, mi dica dove posso trovarlo.

–       Non ho divinazioni da predire, né segreti da svelare, né dotte conoscenze da narrare. Il buio è l’unico sentiero che percorro in questa mia sorte avversa,  ma so riconoscere la mano del destino e i suoi disegni, ora, ha accostato la porta e resta in disparte a guardare. Dispiega le tue intenzioni e vai verso quella stagione che non ha prigioni né cancelli da varcare.
  Che cosa voleva dire? Verso quale stagione dovevo incamminarmi? Non riuscivo a comprendere il messaggio racchiuso nelle parole della donna. Le feci altre domande su Bosco, ma non ebbi più risposte e tra noi scese un silenzio inquietante.
    Ero stanca,avevo camminato tutto il giorno sotto il sole e mi sentivo 
stremata. La luce indefinita del crepuscolo si stendeva sulle cose illuminandole. Continuavo a camminare per quelle vie spettacolari, frugando negli occhi della gente per dare un senso a quei pensieri anonimi.

Le luci dei lampioni andavano accendendosi disordinatamente. Mi  sono seduta su una panca, ferma, ad annusare il vento che da lontano portava l’odore di un caffè mentre lentamente il giorno moriva senza memoria, mi addormentai. Mi sembrò di sentire il suono di un’armonica, ma forse era solo un ricordo. Mi destò un rumore di passi frettolosi che ruppero il silenzio della notte. 
Mi ritrovai, con un foglio di carta tra le mani:

–       Molte cose della vita non possono essere capite, devono restare lì, nel limbo misterioso di tutto ciò che è vicino ma inafferrabile come un emozione che ti attraversa all’improvviso e poi se ne va. Forse esisto o forse no.  Ma tu non cercarmi, perché  in fondo non esisto. Tienimi lontano perché io sono solo un uomo, una foglia al vento che non concima.

 

 

(Questo racconto partecipa al Premio Letterario " Chi ha conosciuto Bosco Nedelcovic" ed è pubblicato nel sito a questo linkhttp://bosconedelcovic.altervista.org/itestimo.htm)

 

Nel respiro del mare

 

Aveva voglia di respirare,di uscire fuori a prendere una boccata d’aria.

Lì dentro, si sentiva soffocare da quei tanti sorrisi ipocriti stampati sulla faccia delle tante persone che stavano insieme a lei, a festeggiare la sua nuova nomina di amministratrice unica dell’azienda per la quale lavorava.

Fuori. Lontano dalle voci del mondo e poco le importava se avrebbero notato la sua assenza.

Si incamminò a piedi ,lungo uno stretto sentiero che da Villa dei Fiori portava al mare.

Nel buio della notte il mare appariva come un enorme mantello nero e solo guardando verso est, si intravedeva un fascio di luce che rifletteva sul mare una striscia argentea.

Si avviò sulla spiaggia,il suo passo reso ancora più elegante dal movimento leggero del vento che gli modellava il vestito alle gambe.

Si levò le scarpe e si accorse di non sentire la sabbia umida sotto i suoi piedi,colpa delle calze di seta, si disse.

Non poteva camminare sulla spiaggia con le calze.Doveva farci l’’amore con la spiaggia,con il mare,con il cielo,con la brezza del vento,con quelle ombre,e con quei profumi che quella notte di fine maggio portava con sé.

Fare l’amore con l’universo e non poteva tenere le calze. Sarebbe stato come fare l’amore con il profilattico!

Si guardò intorno e non scorse nessuno,si tirò sul il vestito e lentamente senza fretta sganciò il reggicalze,rotolò la calza giù per la gamba e la levò piano.


-“Ma cosa fa quella si spoglia”? Possibile che non mi abbia visto!.
Penso che sia il caso che io mi accenda una sigaretta,forse vedendo il fumo della sigaretta e la lucina dell’ accendino si accorgerà della mia presenza e la smetterà di fare questo streep tease non richiesto.


Stava levandosi anche l’altra calza quando vide non molto distante da lei il bagliore di un accendino e per un secondo vide il profilo di un uomo seduto su un grande masso sopra la spiaggia.


  • “Accidenti, e questo chi è”? Non ho visto nessuno prima!
    Penserà che io sia una matta esibizionista in cerca d’ attenzione. Comunque sia, non mi importa niente,farò tutto quello che avevo deciso di fare e lo farò.Non mi può mica frenare una presenza.


  • Ma guarda questa matta,continua a spogliarsi come se io non esistessi,eppure mi ha visto. Eccome se mi ha visto!.


  • Penserà che sono un guardone,uno di quelli che si appostano sulle spiagge ad aspettare che arrivi qualche coppia di fidanzati.
    Ma è mai possibile che non si riesca a stare in pace da nessuna parte.Avevo solo voglia di stare un po’ da solo,respirare i profumi di questa notte,di questo mare, fare pace con il cielo e stringermi addosso una coperta di stelle. Lontano dalle ipocrisie,lontano di chi fa finta di essermi amico ,invece mi vorrebbe vedere ridotto sul lastrico o peggio ancora morto.
    ”Complimenti dottore,ora è lei il primario”. Ipocriti! So bene ciò che pensano.

    Claudia si levò l’altra calza,per non dare spettacolo lo fece infilando le mani da sotto il vestito senza tirarselo su.
    Iniziò a camminare piano sulla battigia,il mare lievemente mosso lambiva la sabbia e i suoi piedi.
    L’acqua era freddissima ma non si ritrasse,continuò a camminare piano ,lentamente, socchiuse gli occhi e respirò l’odore del mare, si abbracciò da sola e con le mani si accarezzò le braccia,le spalle,il collo,i seni,fece scivolare le mani sui fianchi,le fece di nuovo risalire e nuovamente tornò ad accarezzarsi le braccia fino a stringerle intorno alle spalle.
    Sentiva la vita dentro,sentiva quel ritmo vibrante del mare,quel lieve oscillare dell’acqua che le accarezzava i piedi, un fremito le saliva su per le gambe, accelerava i battiti del cuore,le faceva nascere un sorriso sulle labbra e se solo poteva guardarsi gli occhi ne era certa,brillavano più delle stelle.
    Rimase ferma davanti al mare con il viso rivolto al cielo ed entrò in comunione con il mare,con l’universo. La sua mente era sgombra di pensieri. Pulita.
    Si scordò persino dell’uomo che aveva intravisto sulla spiaggia,non sapeva se la stava osservando oppure era andato via. Lei era lì, con il mare e il cielo in un unico infinito abbraccio.


-Per fortuna che è andata a passeggiare o forse a continuare a spogliarsi dall’altra parte.

Ho bisogno di camminare anch’io,di respirare questa notte e sentirla mia,solo in un unico abbraccio.
Io,cielo e mare.

Si levò le scarpe e i calzini, si arrotolò i pantaloni fin sopra il ginocchio e si avviò verso riva.
L’acqua era freddissima ma non gli importava,sentiva il mare, il suo oscillare,il suo ritmo vibrante entragli dentro,scuotere i suoi sensi e sentì che aveva trovato la chiave della sua esistenza perduta in un amore sbagliato.
Con il viso rivolto al cielo fece pace con Dio e capì che dietro ogni curva può nascondersi il mare,capì che dietro ogni angolo c’è una svolta per un’altra strada,capì che sfogliando l’ultima pagina della sua vita avrebbe trovato l’inizio per scrivere un nuovo capitolo.
Pagine ancora da scrivere con inchiostro e anima, e sorrise.



Stava nascendo l’alba e il sole disegnava sull’acqua tenui colori azzurrini sfumati di bianco.
Un gabbiano si librò in cielo e il suo canto svegliò il giorno.

Si trovarono uno di fronte all’altro, riflessi in un unico specchio,complici della stessa notte,figli dell’amore per la vita.
Si presero per mano e andarono incontro al mondo.

 

Annarella

Annarella amava l’estate. Le giornate erano più  lunghe ed aveva più ore di luce per ricamare.
Era solita sedersi davanti l’uscio di casa, il venticello staccava per lei fiori di boungavillee e glieli adagiava sul grembo.  Il gatto ai suoi piedi sonnecchiava, e di tanto in tanto arruffava il pelo.
Ricamava Annarella, con la treccia di fili colorata attorcigliata al collo, abili mani le sue, anche se rovinate dall’artrite.

Ogni tanto si scostava una ciocca di capelli dal viso  e schiacciava con la mano le mosche fastidiose.

Ricamava e raccontava la sua vita sospirando.

A vent’anni  aveva già quattro figli. Durante la guerra partì di notte con il carretto a cercar rifugio in Sila per sfuggire ai tedeschi, sola e nella neve. Il marito era in guerra e Annarella cercava di resistere alla sua battaglia contro la fame che le attanagliava lo stomaco.

Il pane duro ammorbidito nell’acqua lo dava ai figli,  lei colmava i morsi della fame bevendo acqua con poche gocce d’olio.

Sopravisse alla guerra, tornò il marito, i figli divennero grandi e Annarella continuò a dare esami senza conseguire mai un diploma.

Ma non erano esami di scuola i suoi. Annatrella non era mai andata a scuola, non sapeva leggere e si firmava con una X.

Annarella scriveva la sua vita, assetata di sogni e affamata di poesia su tele di lino a punto a croce.
Ricamava cuori ed iniziali  su federe di cuscini dove appoggiare i sogni, ricamava fiori e piante  su tovaglie  che avrebbero visto e narrato di tante cene di Natale tutti riuniti intorno ad un tavolo.

Amava i fiori e le piante, anche quando se le sentiva  crescere nello stomaco e la diagnosi non lasciava scampo, lei continuava a ricamare.

_ “ Lascia perdere, Annarè” le gridava qualcuno.

Ma Annarella continuava a ricamare, doveva lasciare l’ultimo scritto a sua nipote che si doveva sposare.

Le lasciò il suo ultimo racconto scritto sul lino, in fili colorati, intessuto in un ricordo che non svanì mai.

(Annarella era mia nonna).

 

Divisori by Follettarosa

Ancora noi i colori

Le pale del ventilatore sul soffitto giravano lente, le ombre dei nostri corpi si allungavano sulle pareti di El Plaza, rubando minuti al nostro tempo ed inghiottendo il giorno.
L’ultima sigaretta fumata in due bruciava parole, un letto disfatto dal passaggio di noi.
Due valigie da riempire con gli istanti  che  sfuggivano al tempo divenendo già passato.
Un’ ultimo sguardo a quell’angolo di paradiso, gesti lenti  per aggiustare la cravatta ed un nodo a stringermi la gola.
Colonna sonora silenziosa che accompagna  la nostra partenza,  mentre Firenze abbraccia la sua estate.
Noi, il nostro esilio.
Ti avevo lasciato così, dietro il vetro di un finestrino di un treno, aldilà  di un binario.
Una mano sul cuore, il tuo modo per dirmi ti porto dentro, ti avevo risposto allo stesso modo, persa dietro la tua immagine che spariva nella nebbia degli occhi.
Lacrime nascoste dietro pagine di un libro distrattamente letto, mentre la mente proiettava su quelle pagine gli istanti di quel giorno.
Lontani noi…
Lontani dagli occhi, lontani dal cuore.
In tutto questo tempo mi sono resa conto di come sia falso per noi questo detto.
Lontano dagli occhi il cuore sente anche ciò che non vede.
E’ un pittore cieco che disegna tele, aspettando di mostrare agli occhi ciò  che non ha mai escluso dal  cuore.
Un quadro da appendere, altre tele da riempire.
Ancora noi i colori

Divisori by Follettarosa

Cara Maestra

...quand’ero bambina qualcuno si divertiva a fare ripetere a me
che avevo la S difettosa,l’unica poesia che avevo imparato a memoria:
Scampanellano festose,le campane delle seste (Scampanellano festose
le campane delle chiese).
A me che fin da allora subivo il fascino della poesia e ne sentivo nell’anima
le sensazioni,non mi fu mai noto il perché di quei sorrisi.
Fu allora che con il tuo aiuto,la poesia mi sembrò una “emozione” da
conservare dentro preziosamente.
Una mattina venni nella tua classe, era l’ora della merenda per i tuoi

ragazzi di terza elementare,c’era un vago odore di arance e parole
di bimbi nell’aria e occhi curiosi e suoni sulla strada e un gran caldo
per me nella stanza.
Il mio cuore quel giorno era stato un pò freddo e tu spiegavi in quel
caldo improvviso dall’odore d’arance a quegli occhi curiosi  che io
ero un “poeta”.
Impaurita da quegli occhi curiosi,come fari addosso ,mi chiedevo:
Capiranno chi è un poeta?
Ma io non mi sentivo un poeta,ero venuta da te a portarti la raccolta
di poesie che avevo dedicato a mio figlio e ad annuciarti il mio
ritiro dagli studi.
Un ragazzo con il ciuffo composto mi chiese un autografo ed ebbi
finalmente voglia di ridere.
Poi tu dicesti ad uno di loro di recitare per me la poesia di Langston
Hughes: “La vita per me non è stata una scala di cristallo”.
Fosti cattiva e dolcissima allo stesso tempo perchè riuscisti
a smuovermi quello che avevo dentro.
C’ero io “poeta” a salire le scale, io “madre”, qualche volta al buio,
dove non vi era spiraglio di luce.
E provai commozione e gratitudine verso quei ragazzi,quegli occhi
curiosi che avevano sentito la poesia come “emozione” e la facevano
vivere.
Mi fu risparmiato ancora una volta l’orrore della poesia imparata
a memoria, poesia senza espressione,senza sentire il dolore,la
ragione del poeta di averla creata.
Fu un’esperienza  fra le più belle della mia vita, che ancora oggi ricordo.

 

Cara maestra,

in questo ricordo oggi racchiudo il mio addio per te da questa

Divisori by Follettarosa

Come cadendo si torna a volare

 

 

Semplicemente seguendo con lo sguardo il volo di un gabbiano nel cielo, mentre lentamente ti scivolano tra le dita come granelli di sabbia i tuoi giorni in una clessidra.Il vento del mare soffia dolcemente scuotendoti dal tuo torpore e comprendi...

 

Comprendi che l'amore è solo un'abito mentale con il quale hai coperto il tuo cuore, nella cieca convinzione che quello che avevi dentro poteva essere condiviso e compreso. Ma è un'abito tuo, indossato da te,cercando in tutti i modi di farci entrare qualcun'altro ma non regge.Troppo labili quei fili con cui è stato cucito,fili di ragnatele imprigionati in pensieri,sogni,voli e melodie tutte in un assolo....

 

Capisci che è giunto il tempo di svestire il tuo cuore,riporre l'abito nella soffitta dei ricordi.Rispolverarlo semmai a ottant'anni quando con passo stanco e mani tremolanti ti renderai conto che emozioni da vivere non ce ne sono più,e ti serviranno quei ricordi.

 

Ma oggi no...

 

Per non morire dentro...

 

Perchè la voglia di ubriacarti di vita prevale.Non importa se non c'è la primavera del cuore.C'è la primavera del dopo inverno,della rinascita,con nuovi colori e profumi.

 

E si torna a volare...

 

Dando un'ultimo sguardo a quel gabbiano felice nel cielo e ti accorgi che sulla sabbia non ci sono più tracce dell'orme di quell'amore finito...

 

Ma solo le tue...

 

 

 

Divisori by Follettarosa

Figli di un sogno

Ed è il tuo buongiorno la prima emozione del mattino.
Come a continuare i sogni della notte e i mille pensieri del giorno. Tu e sempre tu.
Nelle fantasie e nei progetti. Nei momenti incantati e magici che il quotidiano regala e nei sogni ad occhi aperti. Tu e solo tu.

Era stato il buongiorno del mattino. La luce della messaggeria che lampeggiava, il suo sms, il suo raggio di sole.
Ed era così che si erano innamorati, solo è soltanto attraverso la scrittura.
Dopo tanto scriversi, avevano deciso di scambiarsi le foto. Dio che emozione!
Lo ricordava ancora. Ad aprire la mail ci mise un tempo incalcolato, il cuore in gola e le mani che le tremavano sulla tastiera.
Poi il suo sms l’aveva lasciata senza parole: “Mi guardi dritto negli occhi, bella ed affascinante. Mi sento il cuore in gola, eppure è solo la tua foto. Certo! Bisogna non avere fretta e seguire la danza delle emozioni. Non so tu, ma per me è già una danza frenetica del cuore. Ogni giorno di questa storia porta tanta emozione quanta tutta una vita….
Per Marica era iniziata la danza della primavera, tanto sole, mille colori, mille profumi, e il tutto portava un solo nome: Andrea.
Le foto avevano acceso in loro il desiderio di incontrarsi.
Lo avevano deciso insieme e stabilirono una data.
Iniziò un conto alla rovescia, ogni giorno Andrea gli mandava un sms e lo concludeva con un “meno uno”.
Più passavano i giorni e più si rendeva conto di essersi innamorata. Un amore virtuale!
Non si pose mai domande. Né se, né ma, né forse. Voleva incontralo. Voleva viversi la sua favola. Non sapeva dove l’avesse portata, ma, sapeva da dove partiva. Per una volta, una volta soltanto,seguì la voce del cuore.
Arrivò a Firenze al tramonto, quando tutto tende a colorarsi di arancio e oro. L’aria mite d’Aprile l’avvolse come una carezza.
Aveva chiesto ad Andrea di non andarla a prendere alla stazione. Era un momento unico, da fotografare nella sua mente e non voleva testimoni che potessero togliere la magia a quel loro tanto atteso incontro. “ Io e te soltanto” gli aveva detto.
Una volta scesa dal treno, non attese alla lunga coda dei taxi ma, ne prese un privato che le costò il doppio. Non le importò. Voleva arrivare in hotel il più presto possibile per farsi bella per lui.
Appena arrivata si fece una doccia, si cambiò i vestiti e si rifece il trucco.
Nell’attesa andava avanti e indietro, fumando un numero imprecisato di sigarette. Si guardava allo specchio mille volte, accendeva la tv, poi usciva a guardare fuori del balcone, poi in bagno,ancora un’altra sigaretta, ancora uno sguardo allo specchio e poi sentì bussare.
Il cuore cento cavalli in corsa. Si guardarono un solo istante e si abbracciarono forte come due amanti restati lontani per troppo tempo, ma loro erano due perfetti estranei.
Le loro bocche si unirono in un bacio senza fine, mille baci e poi ancora mille, avidi, di un amore da tanto tempo atteso. Uscirono dai vestiti senza rendersene conto. I loro corpi si unirono in una danza morbida, sensuale, a segnare il ritmo solo i battiti dei loro cuori. Prolungarono quella danza per un tempo indefinito, al limite del tempo stesso, fino a quando i loro corpi non li tradirono. Poi il silenzio dei sospiri stanchi e le dolci parole sussurrate guardandosi negli occhi protetti l’uno nelle braccia dell’altro.
Tutto era immerso nel silenzio, come se l’universo e la vita avessero cessato di esistere e si fossero trasformati in qualcosa di sacro, senza nome, senza tempo.
Una sensazione di pienezza permeava su Marica, sembrava che lui conoscesse da sempre la sua esistenza, il suo corpo,la sua anima, il suo cuore Chiuse gli occhi e si addormentò.
Il sole li trovò abbracciati, figli di un amore già nato.

 

( Pubblicato al concorso Emozioni 2009-manualedimari

 

Divisori by Follettarosa

Ninetta

Ricordo i lunghi pomeriggi estivi quando per prendere un po’ di fresco andavo sotto il pergolato di Ninetta insieme alle mie compagne.
I giardini portavano i canti dei grilli e le api ronzavano intorno ai fichi messi ad essiccare sui canestri.
Ninetta stava  seduta sulla sua poltrona di vimini.
Credo ci aspettasse.
Al riparo dal caldo con le mie compagne leggevamo dei libri o dei fotoromanzi.
A Ninetta non facevano piacere le nostre letture e spesso ci rimproverava:”Fate qualcosa con le mani, che se vi riempite la testa di tutte queste chiacchiere non troverete mai marito.”
Noi scoppiavamo a ridere e prendendola in giro le dicevamo “ Ninè, ci sposeremo per procura come la tua Rosetta e ce ne andiamo in Argentina.”
Rosetta era l’unica figlia di Ninetta, si sposò per procura quando aveva vent’anni e partì per l’Argentina.
Credo che un motivo per cui sposò un uomo che neanche conosceva se non in foto,fosse dato dal  fatto che aveva delle grandi ustioni sul mento e sul collo.
Da bambina si  era tirata  addosso la pentola che bolliva sul fuoco.
Forse aveva paura di non riuscire a trovare marito e di rimanere sempre accanto alla mamma, vedova da tempo.
Quando le nominavamo  Rosetta le si illuminavano gli occhi, piccoli come due fessure, ma che divenivano enormi ed acquosi al solo suono di quel nome.
Poi tirava fuori dal seno una busta bianca piegata in due e me la porgeva :”Leggi Annalà è la lettera di Rosetta.”
La prendevo e guardavo il timbro e le dicevo “Ninè, ma non te l’hanno ancora letta?”
Sapevo invece che gliela avevano letta già centinaia di volte, ma le piaceva il mio modo di leggere,anche perché io quando le lettere erano brevi e fredde aggiungevo qualcosa di mio,"un ti voglio bene", oppure" un mi manchi tanto."
Credo che lo sapesse,l’aveva intuito ma non mi diceva niente.
A lettura finita  le lacrime  le rigavano il viso,  si soffiava il naso in un grande fazzoletto bianco  con le sue iniziali ricamate sopra.
Riprendeva la lettera, la ripiegava, e la metteva di nuovo tra i seni e sul cuore.
Sorridendo sospirava :” Annalà tu leggi come le signorine della televisione,quelle che dicono il telegiornale,ma tu però dici parole bellissime,quelle della mia Rosetta.
Ninetta viveva di speranze,sperava di poter riabbracciare un giorno la sua Rosetta,ma erano passati più di dieci  anni da quando era partita e altri dieci ne passarono.
Ma Ninetta la figlia non la rivide più.
Si addormentò eternamente sulla sua poltrona di vimini  in un pomeriggio di fine ottobre,davanti al camino con la legna che bruciava  e  spegneva  sogni e speranze.
In mezzo ai seni,sul cuore, le trovarono l’ultima lettera di Rosetta…

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